Camilla Abbate: Il sole c’è anche quando non si vede

La ex tennista WTA Camilla Abbate racconta come affrontare una depressione e le difficoltà di una vita da PRO ed uscirne rinforzati nel corpo e nell’anima.
Ventuno anni, di cui diversi passati a girare Italia, Europa e Mondo, per coronare il sogno di diventare una tennista professionista, poi le difficoltà di un male oscuro, cattivo, prepotente e infingardo: la depressione. Il momento di crisi netta, ora la rinascita come donna e come professionista. Da adesso gli orizzonti sono completamente differenti, con una consapevolezza nuova: godersi ogni singolo secondo di questa esistenza, sapendo che pur se una ricaduta è sempre possibile, le armi per affrontarla sono pronte.
Camilla ora sta svolgendo un tirocinio presso Skillathletic Irnerio a Bologna, che è un punto di Club 4.0, un progetto rivoluzionario davvero interessante: attraverso esercizi specifici, differenziati in diversi programmi, si sviluppa 4 aspetti chiave della preparazione atletica: power, speed, agility e stamina. Tale progetto guarda sia in direzione del wellness che in quello degli sportivi professionisti e Camilla appare proprio una figura adatta a proporlo e indirizzare atleti pro o persone comuni verso il sentirsi bene nel corpo e nella mente. Ha ripreso anche a calcare i campi come agonista e si è qualificata per l’Universiade dove rappresenterà l’Italia a Napoli nella prima settimana di luglio. Ma come è riuscita “Cami” a ribaltare uno stato di cose complicate a proprio favore? Ecco la sua storia.


Camilla nel 2018 è nel momento migliore della carriera in teoria, infatti è al best ranking ottenuto il 16 aprile di quell’anno al numero 1154 WTA in singolare. In doppio va ancora meglio: primo titolo vinto e best ranking al numero 876 del mondo. Una ragazza molto attraente a detta di tutti, spigliata anche se mai volgare o arrogante, avvezza allo studio e alla riflessione. Una ragazza che tutti vorrebbero come figlia. Una ragazza che però dentro sta covando un malessere. Non ha nemmeno il tempo di rendersene conto che le capita l’occasione di trasferirsi negli USA, in una Università nella quale potrà studiare e nel frattempo essere membro della squadra di tennis. Una opportunità di prepararsi un eventuale piano B se le cose nel tennis non dovessero funzionare al punto di guadagnare bene, e allo stesso tempo la possibilità di allenarsi e fare la vita da pro nelle migliori condizioni possibili. O almeno questo è ciò che lei spera. Ma presto Camilla realizza che le cose non stanno esattamente così. Non ha fatto i conti con un cambio repentino di stile di vita: nuove amicizie, una famiglia lontana e come ci spiegherà un mondo totalmente differente dal nostro sia come abitudini di vita sia come metodologia d’allenamento. Un mondo, quello USA, che la priva di punti di riferimento decisivi. E scoppia ciò che era già pronto ad esplodere: quel malessere, quella impossibilità di godere di una vita teoricamente senza particolari problemi, che ne minano le sicurezze già labili. E quella ragazza dalla battuta pronta, dall’aria scanzonata, figlia di una Bologna dotta e allo stesso tempo godereccia, perde la sua freschezza. Camilla si ritrova sola in America, non ce la fa più e decide di tornare. Ma i problemi continuano. Viene a mancare la capacità di sorridere, di apprezzare una bella giornata di sole. I segnali sono chiari. Camilla non sta bene e vuole, anzi deve, fermarsi. Stoppa l’attività agonistica e prova a ricostruire pezzo per pezzo quello che resta della sua anima devastata da momenti terribili, di solitudine interiore, di paura di non farcela. Non è più solo una palla break da fronteggiare, è una perdita di energia vitale. Gli occhi si spengono e i disturbi aumentano. Ma Camilla non molla e giorno dopo giorno, grazie ad un percorso di cure ben costruito, torna ad essere quella ragazza solare e positiva. Con una ritrovata fiducia e una esperienza pagata a caro prezzo ma che ora torna utilissima. Nuovi orizzonti si aprono avanti a lei.
La parola a Camilla Abbate, futura allenatrice con un bagaglio già così ampio di competenze alla sua giovane età.
Camilla, ci sono tantissimi ragazzi sportivi, e in particolare nel tennis, che finiscono in una sorta di “depressione”, di insoddisfazione, molti faticano anche solo a parlarne, secondo te perché accade così tanto a giovani che sono in salute e fanno comunque una vita di sport?
“Lo sport in generale, e il tennis in particolare ti mettono molto spesso in difficoltà con te stesso. Lo sportivo è per natura critico con se stesso, perché desidera migliorarsi continuamente. E la competizione lo richiede. Può capitare che non ti riconosci più come atleta, mentre fino al giorno prima ti eri identificata quotidianamente nel tuo essere una sportiva professionista. Quando il punto focale della tua vita, cioè lo sport, viene a mancare, perché magari le motivazioni calano o per elementi anche esterni, finisce che ti manca la terra sotto i piedi e ti senti nauseata dallo sport stesso.”
E’ possibile che il tennis, che è uno sport così fortemente stancante a livello mentale, porti più facilmente a problemi di natura esistenziale?
“Il tennis rispetto ad altri sport, come quelli di squadra, è diverso. Emotivamente non ti puoi appoggiare a nessuno, sei solo in campo, a parte in doppio. Poi si viaggia tantissimo, e spesso da soli. I costi per viaggiare sono elevati e quindi non sempre puoi avere il coach con cui ti trovi a meraviglia o comunque un accompagnatore. Il continuo variare delle classifiche, i punti in scadenza, di stress ce n’è parecchio.”
Mi racconti un po’ la tua storia, e i primi campanelli d’allarme riguardo alle difficoltà di affrontare questa vita?
“Evidentemente io già covavo delle difficoltà esistenziali dentro di me, o comunque non ero pronta ad affrontare certe situazioni della vita. La fragilità della mia anima era latente. Ciò che ha fatto deflagrare il tutto è stato probabilmente il mio trasferimento negli USA per giocare in una Università americana. Forse non ero pronta io, forse non era il posto adatto, forse tutte e due le cose insieme. Lo scorso anno mi sono trasferita in America e tante cose della mia vita sono cambiate. Ho faticato ad ambientarmi, nonostante i coach fossero umanamente delle belle persone, questo ci tengo a dirlo. Ero io che non ho preso le cose per il verso giusto. C’è da dire che negli USA è tutto molto diverso. Ero abituata al mio circolo, il Club Giardini Margherita CT Bologna, con il mio coach Giuseppe Postorino, un ambiente che conosco alla perfezione e la mia famiglia comunque sempre accanto. La mancanza di tutto questo mi ha destabilizzato non poco. Diversi gli allenamenti, diverso il rapporto che si instaura con gli atleti, diverso davvero tanto. L’atletica da subito è stato un grosso problema per me lì negli USA. Non condividevo il metodo di allenamento basato molto su pesi e corsa continua, lo trovavo inutile e per il mio fisico addirittura dannoso. Stare tutto il tempo con le cavigliere, cioè gli stabilizzatori delle caviglie, ad esempio, non trovavo fosse una buona idea. I coach mi ascoltavano, quello sì, ma il metodo era quello e stop, dovevo adattarmi io. Mi sono sentita a quel punto parte di un “sistema”, non riconosciuta come individuo, e la sensazione di impotenza, di essere finita in un meccanismo più grande di me che non riuscivo a gestire mi ha completamente bloccata. Tornata qui in Italia mi sono sentita svuotata di qualsiasi energia e ci ho messo un bel po’ di tempo e fatica per ritornare a vivere con positività e convinzione. E oltre alla mia famiglia non smetterò mai di ringraziare Il Club, il mio allenatore Giuseppe Postorino, il DT Marco Marzocchi, il mio preparatore di sempre Alessandro Albertini e Emanuele Di Nicola che mi sono stati vicini, mi hanno supportata nel migliore dei modi. Devo dire che tutto lo staff del Giardini Margherita mi ha fatto sentire amata, e poi anche il Cus Bologna con Federico Panieri e Alessandro Vitti sono stati meravigliosi.”
Come si può fare prevenzione in questo senso? Quali sono i segnali che devono allarmare un allenatore, o un educatore, e o comunque la famiglia?
“La prevenzione si fa attraverso l’educazione alle emozioni, e va fatta fin da piccolissimi. Poi è necessario creare uno stile di vita sano. Due sono i principali campanelli d’allarme: il ritmo del sonno e il rapporto col cibo. Le prime due cose da notare in un ragazzo. Io ad esempio ho avuto disturbi alimentari, mi abbuffavo, non riuscivo ad avere una alimentazione equilibrata. Ingrassi e ti senti in colpa, e il rischio è di passare da un estremo all’altro. Anche osservare le ore di sonno dei ragazzi può essere molto indicativo. Al di fuori di quelle 7 o 8 ore, si deve accendere una spia che forse qualcosa non va. Spesso dormire troppo è sintomo di depressione, dormire troppo poco è sintomo di ipereccitazione.”
I ragazzi, ne conosco tanti che si sono confidati con me, sono restii a parlare delle loro paure più profonde, delle insicurezze e quindi anche di eventuali depressioni o rifiuto della vita per come loro si pone. Conviene parlarne o si rischia di restare esclusi e etichettati in un mondo tanto competitivo?
Nel momento in cui parli automaticamente ti esponi e di conseguenza vieni etichettato. Lo devi sapere e avere le spalle forti. C’è molta gente superficiale che non aspetta altro che fare critiche o crede di avere la panacea per tutti i mali. Conviene scegliere bene con chi aprirsi, solo con chi ha gli strumenti culturali e di intelligenza emotiva per capirti. Però già il fatto di parlarne significa accettare con se stessi di avere un problema, e in questa ottica è senza dubbio positivo.”
Ambiente: io do molta responsabilità all’ambiente che circonda gli sportivi di alta performance. Trovo ci sia mediamente superficialità, giudizi tagliati col coltello, troppa attenzione al risultato immediato. Nel tuo caso l’ambiente del tennis ha influito?
“Come ti dicevo c’è tanta superficialità, come in tutti gli ambienti però. Il tema del “giudizio” è un tema cruciale, certo, ma per primo deve essere un ragazzo a darsi degli obiettivi, perseguirli, dando molta importanza ai segnali che il corpo gli manda. I fattori esterni incidono, senza dubbio, e se trovano un terreno fertile fanno guai nella interiorità degli atleti, ma anche di tutte le persone che hanno una vita differente. Il concetto di wellness va molto in questa direzione: curare l’anima oltre al corpo, e credo che in questo senso si possa lavorare molto e non solo con gli agonisti, ma con tutti, dal libero professionista all’impiegato, dalla casalinga al pensionato. Ed è quello che ho intenzione di fare in questo periodo.”


Debolezza interiore dei ragazzi. Credo che la preparazione di una consapevolezza delle proprie emozioni debba passare attraverso l’educazione dei ragazzi, anche quelli più piccoli, alle emozioni stesse. Vale per tutti ma ancor di più per chi vuole competere come gli sportivi. Tu come vedi i ragazzi giovani di oggi e quali le loro esigenze più urgenti?
Penso che ancora una volta dobbiamo riferirci al concetto di “accettazione di sè stessi”. I ragazzi desiderano essere compresi per quello che sono senza dover corrispondere a modelli predefiniti.”
Il concetto di identità. Molti allenatori parlano di identità tennistica riferendosi ai loro atleti. Chi è un giocatore da fondo, chi un attaccante, chi difende bene, chi deve imporre una diagonale e così via. Si parla poco però della identità emotiva del giocatore. Quanto è importante avere una propria identità, conoscere bene se stessi come persone in questo sport?
“E’ un percorso difficile e lento, ma è decisivo farlo. Conoscersi significa saper riconoscere le emozioni, saperle gestire. Le sfumature emotive sono infinite così come le nostre reazioni alle situazioni. Più si ha maneggevolezza con gli strumenti emotivi, meglio si affronta la vita. Gli allenatori ancora oggi danno relativamente poca importanza alla gestione delle emozioni quando i ragazzi cominciano l’attività. Poi magari quando si diventa professionisti le cose cambiano, ma in qualche occasione la frittata è fatta perché prima impari a riconoscerle meglio le sai affrontare. Io ad esempio ho faticato ad imparare a gestire l’ansia, che è un mix di paura e poi “paura di avere paura”. Lavorando su me stessa, sui meccanismi che mi provocavano malessere, ho capito molte cose, ad esempio la difficoltà di liberarmi dal giudizio, sia quello degli altri che quello che proviene da dentro.”
Io ho visto tanti ragazzi e ragazze in difficoltà andando in giro da soli nei tornei. Un po’ come se la solitudine esistenziale che porta girare il circuito, in uno sport “singolo” come il tennis, mettesse di fronte ai ragazzi una immagine di loro stessi che non conoscevano. Ho visto chi si ubriaca, chi fuma, chi si concede al primo arrivato, chi si chiude in se stesso. Altri invece diventano professionisti dell’allenamento, sputano l’anima anche in competizione ma se ci parli non sono felici. In che senso è’ difficile andare in giro a fare tornei?
“Sì, è molto difficile girare i tornei, Ci sono mille aspetti da considerare, tantissime situazioni cambiano da torneo a torneo, e non mi riferisco a superfici o aspetti tecnici. Si hanno performance positive quando ci si sente liberi. La sensazione di libertà è quella che ha fatto cominciare tutti a fare sport. Si torna bambini. Però questo senso di libertà non è affatto scontato che si provi in tutti i tornei, anzi al contrario. Aspettative, fastidi legati a condizioni fisiche oppure condizioni non adatte al proprio gioco, ci sono mille variabili. Interne ed esterne. E vanno sapute gestire anche queste dinamiche.”
Famiglia e aspetto economico. Come può una famiglia supportare un ragazzo sul piano esistenziale? Essendo così difficile andare in pari o guadagnare se non sei top 100/200 nel tennis, questo presunto problema economico può condizionare un ragazzo nel percorso di crescita emotiva?
“L’aspetto economico può essere determinante. Per alcuni senza dubbio. Ad esempio nel mio caso l’aspetto economico è stato ciò che mi ha spinto ad affrontare l’esperienza americana, perché non volevo gravare sulla famiglia per continuare a giocare a tennis ad un certo livello. Per molti è così, sanno che la famiglia sta spendendo tanti soldi e le aspettative sono direttamente proporzionali alle cifre spese, che non sono banali. Sapere che la famiglia sta utilizzando molte risorse per dare vita ad un sogno, finisce per diventare quasi controproducente. Invece che sentirsi sicuri, ci si sente sotto una forte pressione, che non tutti riescono a sopportare.”
Come se ne esce dall’empasse delle difficoltà emotive o esistenziali? Oltre alò supporto medico che consigli puoi dare? Tu come ne sei uscita?
“Se ne esce e questo è l’importante. Se ne esce prima di tutto prendendo coscienza della propria situazione. Poi la ricetta è: 1/3 farmaci, 1/3 volontà, 1/3 psicoterapia. La terapia farmacologica è quella che ti dà una mano ad affrontare la fase acuta. Poi conta tanto la volontà ferrea di uscirne, quella fiamma che è dentro ognuno di noi e che va lasciata uscire, perché la voglia di vivere ed essere felici è qualcosa di naturale. Infine una psicoterapia adeguata alle proprie necessità. Se ne esce, questo è l’importante, voglio ribadirlo.”
E Camilla Abbate vi aspetta a Bologna, alla Irnerio, che segue il programma Skillathletic: che voi siate degli sportivi professionisti o delle persone che lavorano in ufficio e cercano comunque di sentirsi bene fa lo stesso. Ciò che ha superato Camilla, ciò che ha vissuto come campionessa, le lacerazioni interiori e la susseguente rinascita, una intelligenza emotiva naturale, rendono questa giovane ragazza l’elemento ideale che può aiutare chiunque di noi a migliorare noi stessi, dentro e fuori dal campo. E si aspetta anche un tifo indiavolato a Napoli tra pochi giorni per l’Universiade 2019.
Alessandro Zijno