Gianluigi Quinzi e il Tempio Maledetto

Gianluigi Quinzi: italiano, 22 anni, 147 ATP (156 nuove classifiche)
Sviluppo Potenziale: 70% (con Gorietti nel motore hai voglia a migliorare)

Convinto che la top 100 sia alla portata del nostro campione già nel 2019, con una carriera che può finalmente sbocciare definitivamente a livello ATP.

Credo fosse il 2006, o forse il 2007, non ricordo bene. Vidi un ragazzino marchigiano, mancino, che giocava a tennis nella maniera migliore che avessi mai visto nella mia vita per uno scricciolo come era allora. Ero capitato per caso a Porto San Giorgio e come mi succede sempre ero finito nel circolo di tennis. Rimasi strabiliato. La facilità con cui giocava, spostava la palla, muoveva le gambe, il timing, mi sono sempre rimasti impressi nella mente. Mi dissero che si chiamava Gianluigi Quinzi e già vinceva parecchie partite. Cominciai a seguirne i risultati e quando mi capitava provai a vedere qualche partita. Era letteralmente assurdo lo spettacolo a cui si assisteva, chi lo ha visto giocare anche intorno ai 12 o 13 anni non può che confermarlo. Quando giocava coi ragazzini della sua età non c’era storia, posso assicurare che non sbagliava mai. Faceva zero unforced o giù di lì ogni match. E qualche volta faceva anche dei bei vincenti. Poi più o meno intorno ai tredici anni decise di trasferirsi a Bradenton, da Bollettieri, che quando lo vide (così narra la leggenda, ma me lo hanno raccontato in tanti) gli offrì una borsa di studio quasi totalmente gratuita. La famiglia si trasferì così negli Usa, con la mamma Carlotta che era una campionessa di pallamano (la cui capitale italiana è Teramo, al confine con le Marche). Già ai tempi io avvertii moltissima invidia nei confronti della famiglia Quinzi. Tutti a dire “beati loro che possono permettersi tutte queste spese”, oppure “sì è bravo ma con quel tipo di impegno anche mio figlio lo sarebbe” fino al banalissimo “adesso vince poi bisogna vedere”. Aveva solo 13 anni, se li aveva. Da lì in poi è stato un susseguirsi di successi, fino alla conquista di Wimbledon Juniores che è stata la sua rovina e il suo trionfo allo stesso tempo. Il tempio maledetto come Indiana Jones. Trionfo perché alzare una coppa nel tempio di Wimbledon è qualcosa che si ricorderà tutta la vita, sia se avrà altri successi del genere, sia se non li avrà. Rovina perché il pubblico nazionalpopolare gli ha messo addosso una pressione assurda, alimentando aspettative che in maniera naturale e logica avevano già lui stesso e la sua famiglia. Era il 7 luglio del 2013, e già da anni era considerato il Messia. Pensate cosa accadde dopo quella vittoria.

Due anni più tardi ho incontrato il papà di Gianluigi, Luca Quinzi, ad Avezzano in occasione di un torneo Under 12 del figlio minore. Ci ho scambiato 4 chiacchiere e mi confessò apertamente (cosa che ha fatto anche dopo pubblicamente, per questo lo racconto) che la gestione di quel successo fu complicatissima: avevano lavorato al massimo su molti dettagli, la parte atletica, la tecnica, la gestione dei soldi, la tattica ma avevano tralasciato questo dettaglio. Che dettaglio non era, il successo. Che il successo enorme, così come la sconfitta cocente, siano degli impostori si sa da tempo. Ma quando ci si trova ad affrontarli si è impreparati, esattamente come quando si diventa genitori. Si nasce figli del resto. E nello sport non si nasce professionisti, si nasce appassionati, si gioca per divertirsi, la racchetta diventa un modo per mettere alla prova se stessi, nulla a pretendere. Persino quando arrivano le prime vittorie, il gusto dei bambini è quello di provare emozioni, sperimentarsi, senza quelle sovrastrutture di noi adulti. Lui ha dovuto subire tutto questo quando non era ancora pronto evidentemente. La mancanza di un top player (sebbene Fognini possa esserlo considerato a mio parere) in Italia ormai dai tempi di Panatta e poi Barazzutti ha fatto il resto, con una parte dell’Italia ad aspettare gli stessi successi nel circuito maggiore, e gli invidiosi (e quelli che a vario titolo e per diverse ragioni non amavano i Quinzi) pronti a sparare a zero quando Gianluigi ha cominciato a balbettare a livello ATP. Molti si sono dimenticati che ognuno ha i suoi tempi. E da quel 2013 si è cominciata a perdere la strada maestra da parte dei Quinzi. Cambi di allenatori, staff non bene amalgamati, un ragazzo in crisi d’identità anche fuori dal campo, con qualche dubbio se e come continuare l’attività internazionale e risultati che come conseguenza non arrivano.

Eduardo Medica, il coach argentino, era stato l’artefice della cavalcata di Wimbledon, lo allenava alla sua maniera, e più volte ha ripetuto che ad un certo punto, nel 2014, non vedeva più negli occhi del ragazzo la passione, la voglia di sacrificarsi, e che erano cambiate troppe cose intorno a lui. Mi permetto di fare una osservazione personale e non me ne voglia Medica: secondo me sbagliò, fece un ragionamento da calcolatore e capitano poco coraggioso (della serie “abbandono la nave, perché mi sembra che possa affondare”) e non scommise sulle sue possibilità di salvare ciò che di buono aveva costruito. Che era tanta roba, come dicono i giovani d’oggi. Uscito dai radar di Medica, il cammino di Gianluigi riguardo alla sua crescita da atleta fu tutto meno che fatto di scelte coerenti. Compresa quella di richiamare Medica qualche anno più tardi, quando ormai le strade si erano divise. Nel frattempo Gianluigi si era allenato con Tenconi, al quale non ha dato il tempo necessario: perché Tomas è un coach con i fiocchi che lavora moltissimo sia sulle sensazioni e sulla tecnica, che sull’aspetto della crescita culturale e dell’intelligenza emotiva dei suoi allievi. Invece con il coach italo argentino ormai trapiantato in Italia (è a Tirrenia con la FIT) ha fatto solo una trasferta in Sudamerica e poco più senza avere la necessaria pazienza. Poi aveva provato con Gorriz, Torresi, Petrazzuolo. Tutti tentativi falliti. Nessuno ne ha mai parlato ufficialmente ma qualche voce è girata sulla difficoltà di lavorare con un ragazzo come Gianluigi. Il perché? E’ presto detto. Si lavora con una pressione incredibile, un po’ come succede per gli allenatori di calcio di “piazze” esigenti. Allo stesso momento il tennista Quinzi ha bisogno, per vari motivi, di parecchio tempo, sia per qualche infortunio, sia per limiti tecnici che da Junior erano mascherati da uno strapotere fisico all’inizio (fino ai 16 anni) e da una sagacia tattica innata ai tempi di Wimbledon e una sicurezza in se stesso che farebbe invidia a Nadal. Ad esempio il servizio all’epoca, che certo non era il suo colpo migliore, e che pur già appariva migliorabile, da Junior gli regalava comunque il vantaggio nell’inerzia dello scambio, Quinzi scendeva a rete e si prendeva i punti che doveva con relativa semplicità mentre da Pro a rete si vede di rado. Stesso discorso per un diritto non eccezionale che tuttavia gli bastava per non perdere campo e poi contrattaccare con il turbo rovescio a due mani. Tutto questo lo capivano benissimo tutti, escluso Gianluigi, e questa era la sua grande fortuna. Fino a quel Wimbledon 2013 Medica poteva lavorare con un ragazzo che credeva ciecamente in se stesso, si credeva imbattibile, non si rendeva nemmeno conto più di tanto delle difficoltà che avrebbe incontrato più tardi, mentre intanto il suo coach comunque poteva lavorare in silenzio per colmare quelle lacune. Era un buon terreno su cui seminare. Fertile e allo stesso tempo migliorabile. Quando Medica ha visto le prime crepe nella fiducia del ragazzo, Crash, ha deciso di stoppare la collaborazione e tutti quelli che sono venuti dopo non hanno potuto fare altro che provare ad aggiustare i pezzi. Sia quelli emotivi/motivazionali, che quelli tecnici di Gianluigi. In tutto questo mettiamoci i dubbi, le difficoltà esistenziali di un ragazzo appena maggiorenne, alle prese con un fisico nuovo, a volte dolorante, e una famiglia colta alla sprovvista. Cosa fa chiunque di noi quando è disperato? Si affida a chi sembra possedere arti magiche. E chi meglio di Ronnie Leitgeb, che è qualcosa di più di un santone. E’ uno che ha portato Muster ai livelli che sappiamo, ha curato Gaudenzi rendendolo un campione fuori e dentro al campo, e che aveva un talentino austriaco (Lucas Miedler) tra le mani che poteva dialogare in campo con il nostro Gianluigi. La famiglia Quinzi non ci pensa su un attimo e Gianluigi si trova a lavorare con il tecnico austriaco. Io li vidi insieme a Perugia nel 2016, quasi una intera settimana ed ero fermamente convinto che il binomio funzionasse. Leitgeb è qualcosa a metà tra un taumaturgo e un rompipalle, parla poco e quel poco però te lo spiega bene. Osservandoli insieme potevi pensare che Gianluigi avesse quasi timore di lui, un tipo di sensazione che non avevo mai attribuito all’animo di Quinzi che sembrava sempre molto in controllo nel suo rapporto con i coach. Insomma ero convinto che avrebbe funzionato. Perse da Lorenzo Sonego al primo turno e andò un po’ più avanti in doppio in coppia con il cileno Jarry. Assistetti al match contro il luxury fighter torinese e Sonny lottava come un leone mentre Gianluigi era nervosissimo e ogni tanto lanciava strali contro il mondo. Vinto il primo, Quinzi va sotto nel secondo e lo sguardo mi va verso il suo angolo: Leitgeb aveva l’aria di chi è piuttosto contrariato, mentre il papà di Gianluigi era nel parcheggio dietro al campo a seguire il match del figlio tramite lo smartphone (papà Luca spesso non assiste alle partite del figlio pur essendo in loco). Insomma per farla breve non si respirava certo armonia nello staff di Gianluigi, nonostante tutti facessero al meglio il proprio lavoro. Pur venendo da un buon periodo (aveva da poco vinto un torneo e fatto quarti in un Challenger) alla fine perse quel match e forse qualche crepa si aprì proprio in quel momento tra Leitgeb e Quinzi. In realtà il binomio andò avanti per altri mesi, con risultati anche positivi, una leggera crescita nel ranking entrando in top 300, prima della definitiva separazione. Quinzi ha dichiarato che Ronnie è stato un secondo padre, quindi immagino che il rapporto umano tra i due fosse positivo mentre quello professionale giudicato poco proficuo, o forse ci saranno stati altri motivi, magari legati a realtà più personali.

Sta di fatto che nella primavera 2017 arriva l’annuncio che Fabio Gorietti avrebbe seguito Gianluigi Quinzi nella sua Accademia a Foligno, considerata la migliore d’Italia. La Tennis Training School, che è anche Centro Tecnico Permanente FIT, ha accolto Quinzi e lo ha fatto sentire subito a casa. Oltre alle grandissime competenze tecniche, all’esperienza e a uno staff ormai collaudato, Gorietti ha uno stile davvero unico, che per altro a me piace molto. Mantiene sempre un low profile, non fa il fenomeno pur avendo risultati impressionanti (pensiamo solo a Fabbiano in top 80 e Vanni in Top 100), è un attento osservatore delle dinamiche psicologiche degli atleti, da cui sa cogliere il meglio. Immaginiamo un atleta che chiami il suo coach per dirgli che vorrebbe andare tre giorni a fare una gita in montagna e non si può allenare. Un Leitgeb direbbe più o meno: “tu uomo libero, tu può decidere cosa fare e qvando farlo, io pure uomo libero e posso preparare faligie”. Un Gorietti direbbe “Ok, e quando vorresti andare? Venerdì? Dai, alla grande, non questo venerdì però che ti ho programmato un doppio allenamento e poi sabato un test match, poi partiamo per il challenger, però è una bella idea, mi sa che vengo pure io, appena possiamo ci andiamo ok?” Secondo me uno dei suoi segreti è questo, la capacità di far lavorare come muli i ragazzi dando l’idea di starsene comunque in un ambiente protetto, positivo e libero. Se Leitgeb è il fuoco, Gorietti è l’acqua, che arriva dappertutto, cercando pertugi improbabili e forzando con insistenza e continuità ovunque si celi una possibilità. Con quell’aria rassicurante Gorietti non ha bisogno nemmeno del bastone e della carota con i suoi allievi, gli dà quelle sicurezze che solo in luoghi di provincia come Foligno e con persone come lui si possono trovare. Si lavora, a Foligno, e si lavora duro. Gorietti nel 2017, appena presa l’incombenza di traghettare il campione marchigiano nel tennis che conta, ebbe a dire che bisognava anche attuare una rivoluzione tecnica. Il servizio doveva diventare un fattore, il diritto non poteva rimanere un colpo interlocutorio ma c’era bisogno di renderlo efficiente ed efficace. Concetti che tutti sapevano, ma che Gorietti ha saputo veicolare all’interno dell’animo di Quinzi. E i risultati sia in termini di ranking che di livello si sono visti. Il 2018 è stato il miglior anno di Gianluigi con best ranking 147 ATP, 42 vittorie e sole 18 sconfitte, 2 Futures e 2 Challenger vinti e parecchia consapevolezza in più.

Il 14 dicembre 2018 si sono allenati presso la Rome Tennis Academy due tra i nostri migliori giovani, Matteo Berrettini seguito da Santopadre (e Rianna per conto FIT) e proprio Gianluigi Quinzi ospite con coach Gorietti della nuova Accademia tennistica romana fiore all’occhiello della Capitale. Ora le nuove classifiche del transition tour penalizzeranno un po’ Quinzi che perderà i punti ottenuti in Turchia lo scorso anno già il 31 dicembre 2018, facendolo precipitare in posizione 156 ATP (perdendo nove posizioni) con i 39 punti che verranno esclusi dal contabile. Sicuramente ci sarà una bella opportunità con le quali Aus Open, e poi si tratterà di programmare bene la stagione dal punto di vista dei tornei da affrontare, che sono un’incognita vista la rivoluzione in atto. Se l’obiettivo dell’establishment internazionale del tennis era quella di aumentare il numero di Challenger pare proprio che sia un fallimento: i Challenger saranno pochini e pur con 48 posti in tabellone principale sarà complicato entrare per molti. Con questa classifica però Gianluigi e il suo staff potranno sceglierli, e ciò potrebbe fare la differenza. Intanto per la prima settimana dell’anno Gorietti ha scelto per Quinzi le quali al 250 di Pune: il campo di partecipazione è agguerrito ma due partite Gianluigi le può vincere e sarebbe una iniezione di fiducia importante. Chiudo con un aneddoto. Qualche mese fa a L’aquila ho incontrato Gorietti, gli ho chiesto varie cose tra cui il suo rapporto con Gianluigi e come andava il lavoro. Le sue risposte sono state diplomatiche della serie “si lavora, siamo contenti” e via discorrendo. Ciò però che mi ha colpito è stato il suo sorriso davvero coinvolgente a 36 denti quando gli ho chiesto se era ottimista su Gianluigi. Chissà se un giorno mi confermerà, Coach Fabio Gorietti, che quel sorriso voleva dire (come l’ho interpretato io) “sì, credo di poter portare di nuovo Gianluigi nel “tempio maledetto e provare a riscrivere la storia”.
Alessandro Zijno